“La fede comincia là dove la ragione finisce” (Soren Kierkegaard)
“Un fatto perde la sua oggettività nel momento stesso in cui manifestandosi viene osservato da un testimone, entra a far parte della sua esperienza e diventa racconto”

La frequenza con cui ultimamente si sente parlare di “fake news” e disinformazione è l’indice della presa di coscienza di un fenomeno le cui possibili influenze sulla scena sociale sembrano assumere una rilevanza tale al punto da alterare il consenso politico e persino i risultati delle scelte elettorali in alcuni casi eclatanti.

Ipotesi che creano un grande fermento sia nella parte politica che nei principali player dell’informazione online come Google, Facebook e Twitter in merito al tipo di provvedimenti da adottare che spaziano dalle soluzioni tecniche, legislative e sanzionatorie; bisognerà poi valutarne l’efficacia nel tempo.

Intanto è opportuno fare una distinzione tra le parole di “fake news”, disinformazione e propaganda che spesso vengono impropriamente usate come sinonimi:

      • Le “fake news” sono notizie che in genere usano toni di sensazionalismo, esagerando o in alcuni casi falsando il fatto cui si riferiscono; all’origine sono nate per generare “clickbaiting”1 e quindi profitti pubblicitari, e in linea di massima sono facilmente smascherabili a meno di essere abbastanza “sprovveduti” (famoso il post condiviso su Facebook dove in una votazione al senato si contavano più di 400 voti complessivi!!);
      • la propaganda è il tentativo deliberato e sistematico di plasmare percezioni, manipolare cognizioni e dirigere il comportamento al fine di ottenere una risposta che favorisca gli intenti del propagandista” (Victoria O’Donnell – 1986);
      • la disinformazione è una comunicazione costruita consapevolmente su informazioni false o fuorvianti che alterano la realtà e influenzano l’opinione dei lettori su un argomento (tratta da http://www.andreaminini.com/comunicazione/disinformazione/).

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Le sottili sfumature che sottolineano le differenze tra i termini ne mutano sostanzialmente significati e obiettivi sociali, ma in estrema sintesi mentre le fake news puntano a effetti strumentali di breve tempo e di limitata portata, la disinformazione “alterando” consapevolmente la realtà mira ad un cambiamento di opinione, cambiamento che la sistematicità della propaganda tenta di rendere più o meno esteso e duraturo per asservire fini di un sistema di potere o di controllo.

Focalizzandosi sulla disinformazione, questa consiste di norma in una costruzione molto più raffinata, complessa ed al tempo stesso più subdola delle fake news, assai difficile da smascherare perché spesso richiede competenze approfondite e/o la disponibilità di dati originari che il lettore non ha.
Di norma la disinformazione si annida proprio nella capacità di falsare il nesso di causalità di un fatto, che spesso si concretizza nelle modalità di trattazione e selezione di dati o situazioni originarie, aspetto che nella notizia non viene quasi mai sufficientemente esplicitato.

Per questo l’efficacia della disinformazione si fonda sulla credibilità acquisita dalla fonte specialmente verso il suo lettore modello, il cui bias è incline ad accettare le tesi esposte verso le quali adotta un “atto di fede” che trasforma dati parziali in verità assolute, sospetti in prove inconfutabili.

 Argomentare per disinformare 

Sono estremamente numerose le tecniche di argomentazione o dispositivi retorici utili a costruire disinformazione che B. Ballardini descrive nel testo “manuale di disinformazione”, sulle quali si può operare una sintesi classificandole in base all’oggetto cui le argomentazioni si indirizzano:

  • argomentazioni mirate a screditare o erodere la credibilità di un soggetto al fine di indebolirne le tesi;
  • argomentazioni centrate sul contesto che affermano relazioni tra eventi sulla scorta di generalizzazioni e correlazioni di fatti basate su analogie ma senza una reale prova;
  • argomentazioni basate sull’approvazione sociale e mirate ad enfatizzare stereotipi, convinzioni diffuse, abitudini per affermare la verità di alcune tesi;
  • argomentazioni che tendono a validare una tesi sul riferimento a principi di autorità o a miti fondativi come la virtù della povertà, la ragione del potere, l’efficacia di una tesi perché basata sul nuovo o sul vecchio a seconda le circostanze;
  • argomentazioni mirate ad alterare la costruzione della tesi attraverso la manipolazione e inversione di premesse e conclusioni, nell’introdurre o togliere elementi rilevanti a validare la tesi, etc.

Ribadisco che si tratta di una semplificazione tendente soltanto a dare elementi orientativi ma che non ha pretesa di esaustività perché la complessità e varietà di questi aspetti non può essere esposta in questa sede.

Anziché soffermarmi sulle tecniche, sulle quali molti autori hanno scritto e di cui sono reperibili molti contributi, vorrei invece aprire uno spiraglio su una prospettiva alternativa che riguarda aspetti che si verificano all’origine della disinformazione e sul modo in cui questa agisce sulla mente.
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 La relazione tra fatto, notizia e narrazione 

Un passo indietro per riflettere sul concetto stesso di notizia che può essere definita come la descrizione di un avvenimento in corso o concluso, data da un giornalista attraverso un medium.

Un fatto per diventare notizia deve possedere il requisito fondamentale della “notiziabilità”, deve cioè essere interessante per il pubblico destinatario, deve “far notizia”.
In merito al concetto di notiziabilità, U. Volli (Manuale di Semiotica) afferma che esistono due grandi fattori origine di notizie: il difetto di razionale connessione logica (l’uomo che morde il cane), oppure l’esistenza di una causalità degradata (il cane randagio che morde l’uomo ove il fatto sta nella causa del randagismo).

In entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un’anomalia rispetto all’ordine comune delle cose, alterazioni rispetto ad un concetto di normalità che è in sostanza un costrutto culturale (normalità/anormalità) basato su una larga condivisione di conoscenze soggettive che fanno parte delle rappresentazioni sociali.

Ma quest’ultimo aspetto non può essere separato da una delle prospettive più ricche della psicologia sociale che si ricollega all’approccio scientifico di A. Smorti (Narrazioni, 2007) secondo il quale l’uomo ha la tendenza innata a memorizzare la propria esperienza del mondo in forma narrativa, attività cognitiva che riguarda il modo di categorizzare le informazioni e i ricordi della nostra mente.

Sulla scorta di tale presupposto è improbabile che il lettore percepisca la notizia di un fatto esclusivamente per come viene enunciata, ma che viceversa la elabori dandole la struttura di una storia, completandola laddove manchino degli elementi avvalendosi delle esperienze del passato, in modo che questa possa essere memorizzata nella sua mente.

In questo modo una notizia strutturata in forma narrativa, di fatto implica una proprietà diacronica che anche se non esplicitata, prevede l’esistenza di un contesto o panorama circostanziale (passato) che prelude al verificarsi di un fatto (presente) con il quale intrattiene un nesso causale, dal quale consegue la logica capacità di produrre conseguenze nel futuro (una tesi sulla particolare struttura narrativa di una notizia è esposta nell’articolo “La tragedia dei treni di Andria…”).

Riepilogando, la notizia diventa il racconto di una storia che implica aspetti passati, presenti e futuri, a volte chiaramente esplicitati, in altre sottintesi se ritenuti già noti al lettore modello, messi in relazione attraverso delle argomentazioni.

Conseguentemente anche a quanto riportato nel paragrafo precedente, è proprio nelle argomentazioni utilizzate per mettere in relazione queste tre fasi che si può originare disinformazione, alterando il rapporto tra la causa, l’effetto e le possibili conseguenze.
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Nella figura che schematizza l’arco temporale all’interno del quale si concretizza un fatto, i due momenti che permettono una maggiore “soggettività” sono quelli che si fondano sulle argomentazioni utilizzate per affermare il nesso causale e il ragionamento logico-deduttivo che consente di fare una previsione sulle conseguenze.

Ad esempio nel raccontare un’alluvione dovuta a piogge molto intense, il panorama circostanziale implicherà probabilmente nessi causali quali l’eccesso di cementificazione, oppure la mancata manutenzione dei corsi d’acqua o ancora il malcostume e la corruzione nelle concessioni edilizie o i cambiamenti climatici.
Gli effetti del fatto potranno consistere nei danni, nelle difficoltà create alla popolazione o peggio ancora nelle vittime occorse.
Le conseguenze potranno essere ipotizzate nella stima dei danni provocati, o nei danni all’economia o magari nella perdita di posti di lavoro e via dicendo.

Normalmente per gli eventi importanti nessuna testata giornalistica liquida la questione con un solo pezzo, pertanto il racconto diventa in realtà la somma di tutti gli articoli fatti sull’argomento in una unità di tempo relativamente breve, tuttavia non necessariamente il livello di dettaglio sul panorama circostanziale o sulle conseguenze future sarà esaustivo.

In tal caso il lettore modello provvederà in proprio a completare la storia facendo ricorso agli antecedenti2 per quanto riguarda il panorama circostanziale, agli script3 relativamente alla determinazione delle possibili conseguenze.
Il punto è che molto spesso script e antecedenti non sono il frutto delle esperienze dirette e soggettive del lettore, ma la risultante di queste e delle costruzioni giornalistiche del passato, con tutte le incognite di oggettività del caso.

Considerando l’esempio fatto dell’alluvione, ognuno dei nessi causali citati può essersi verificato nel passato, per cui l’autore dell’articolo farà la sua ricostruzione affermando o ipotizzando delle cause.
A questo punto i processi cognitivi del lettore si attiveranno per verificare se nella sua memoria esistono storie simili e se quindi il contenuto della notizia sia “verosimile”.
Se troverà degli antecedenti simili alla situazione raccontata ne costruirà una regola con oggettivazione, ritenendo valido il nesso causale senza bisogno di particolari prove da parte del giornalista/narratore, creandosi i presupposti per classificare nello stesso modo gli eventi simili che dovessero verificarsi successivamente.

Al tempo stesso il giornalista nell’ipotizzare conseguenze future, frutto di deduzioni logiche fondate su una relazione di probabilità, tenderà a fare affidamento agli script, ovvero schemi di comportamento/azione già verificatisi in casi precedenti e ritenuti altamente probabili e funzionali, schemi già in possesso delle esperienze del lettore.
In teoria bisognerebbe avere la capacità di tenere ben distinti il fatto o evento (che è oggettivo solo nel tempo e nello spazio in cui si manifesta e che perde immediatamente questa proprietà nel momento in cui entra a far parte del racconto di qualsivoglia testimone oculare o articolo giornalistico), dagli elementi aggiunti per dare una forma espressiva al suo racconto.

Infatti la sua forma espressiva sarà il frutto del processo interpretativo del narratore che se operatore professionale dell’informazione la trasforma in notizia secondo i “criteri produttivi”4 della testata giornalistica così da renderla fruibile per il proprio lettore modello, il quale la decodificherà e memorizzerà attribuendole significato in armonia alla propria enciclopedia di conoscenze.
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Per questo motivo tacciare una notizia di disinformazione spesso diventa difficilmente oggettivabile e profondamente opinabile, perché questa si forma al di fuori della manifestazione di un fatto/evento ed è inevitabilmente il frutto di processi interpretativi assolutamente soggettivi che si fondano nel mettere in relazione un fatto con rapporti di probabilità con ciò che lo ha preceduto e con ciò che lo seguirà.

Va da sé quindi che la disinformazione per attecchire ha bisogno di collegarsi ad un “mainstream” di stereotipi e convinzioni sociali diffuse che è giusto definire con il loro vero nome di rappresentazioni sociali.

Per la nostra alluvione ad esempio sarà facile ipotizzare un nesso causale derivante dagli eccessi di cementificazione dovuti alla corruzione politica, così come non sarà difficile diffondere l’indiscrezione di aumenti delle tasse per far fronte ai danni; sarebbe invece molto più difficile affermare un nesso causale dovuto a fenomeni ciclici geologici eccezionali, così come far credere che l’Amministrazione locale avesse accumulato risorse in precedenza per far fronte al problema e che i lavori di ripristino potrebbero generare un aumento dei posti di lavoro.

Pertanto è un po’ superficiale pensare che la disinformazione si riconduca ad un certo tipo di notizie più o meno sapientemente manipolate, perché dove queste non trovino una rappresentazione sociale condivisa non sarebbero in grado di produrre alcun effetto.
La sua potenza e pericolosità invece si annida nella costruzione progressiva e paziente, come in un gigantesco puzzle da realizzare in tempi più o meno lunghi, di rappresentazioni sociali dove i singoli individui hanno sviluppato una serie di copioni preconfezionati che li guidano a ragionamenti deduttivi indirizzati.

La diffusione di certi stereotipi e schemi di ragionamento attraverso i mass media, effetto dilatato a dismisura dalla presenza dei social media, provoca la formazione di una psicologia collettiva che ha molte similarità con la psicologia della folla, dove si instaurano processi di regressione e rifiuto della conoscenza a favore di semplificazioni specie se condivise dai più, nella convinzione che quelle rappresentino la verità.

Per tali motivi un’analisi approfondita dell’argomento è possibile solo considerandolo sotto un’ottica interdisciplinare che prenda in considerazione non solo le comunicazioni di massa ma anche i principi della psicologia e il funzionamento della memoria narrativa, le tecniche dell’argomentazione retorica e le socio-semiotiche circolanti in un contesto in uno specifico momento.

A titolo di esempio mi soffermerò su un caso sociale anziché politico, in modo da evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni, anche se forse l’argomento avrebbe solleticato ben altri temi da analizzare come casi di studio.

 Un esempio per riflettere 
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I tre ritagli che vediamo nelle immagini si riferiscono ad un tema che si ripropone sui media con una certa periodicità: il confronto degli stipendi tra donne e uomini.
Nei primi due si afferma che le donne guadagnano meno degli uomini, fatto in linea di massima accettato come vero; nel terzo un politico intervistato rompe il mainstream ricorrente affermando che in realtà questa differenza viene originata dal fatto che le donne facciano meno straordinari degli uomini perché vogliono stare più vicine alla famiglia.

Sono due informazioni che specialmente leggendo i titoli appaiono opposte tra di loro, e il giudizio di valore che il giornalista aggiunge nel terzo riquadro, bollando come scioccante l’informazione, pesa non poco.
In questo caso la critica diffusa ha bollato l’affermazione del leghista come folle e sessista sulla falsa riga della “svalorizzazione” del concetto creata dal giornalista nel titolo.

In realtà in nessuna delle notizie riportate, anche per evidenti ragioni di spazio, apparivano le tabelle dati con il totale di occupati, le categorie, le ore globali lavorate, le retribuzioni in valori assoluti e medie, gli aspetti modali rilevati, le correlazioni e via dicendo, dati statistici che avrebbero permesso ad un qualunque lettore volenteroso di approfondire l’informazione e farsi la propria opinione con i dati origine.

In tutti e tre gli articoli, assai brevi, qualche dato insufficiente a spiegare il fenomeno ed al limite della contraddittorietà in alcuni passaggi.

Quindi come hanno operato i nostri informatori?

In sostanza le due informazioni possono essere non solo entrambe “vere” ma addirittura complementari, nel senso che potrebbero provenire anche dalla stessa base dati, che l’una potrebbe integrare l’altra nella descrizione di un fenomeno, ma che nel lavoro di sintesi delle informazioni i nostri informatori si sono serviti di dati parziali, non sapremo mai se per errore o volontariamente.

Certo, potendo disporre dei dati origine, avendo la volontà e la capacità di leggerli e di correlarli, poter conoscere il criterio utilizzato nel costruire l’informazione data sarebbe la soluzione migliore, ma c’è da chiedersi quanti sarebbero in grado di farlo? Avremmo il tempo sufficiente per farlo? Ci sarebbe sufficiente spazio nei media per ospitare la completezza dell’informazione?

Le risposte possiamo darcele autonomamente e d’altronde a pensarci bene spesso non si può pubblicare una tabella, semplicemente perché nella tabella non c’è notizia, o per meglio dire, non c’è narrazione.

Appare chiaro quindi che la fruizione di una notizia richiede un credito di fiducia verso il giornalista/narratore e verso la testata giornalistica che la riporta, così come appare logicamente spiegato il meccanismo circolare che costruisce questo rapporto di fiducia con l’informatore e il proprio bias strutturato sulle conoscenze apprese, gran parte delle quali attraverso i media.

Tornando al nostro caso/esempio poiché legislazione e contratti collettivi non consentono la discriminazione di genere, il problema che determina l’effetto, la differenza di stipendi, potrebbe forse annidarsi in altri aspetti che potrebbero persino essere più importanti.
Non avendo dati originari non mi schiero certamente né dall’una, né dall’altra parte, mi è sufficiente rilevare due aspetti contraddittori in attesa magari di dati veri e non di “racconti”.

Quello che vorrei sottolineare è che i due nessi causali hanno un diverso potenziale di influenza sull’opinione pubblica: nella versione più gettonata dal mainstream corrente, si reitera più o meno frequentemente il concetto utilizzando dati parziali che comunque aumentano salienza e risonanza del tema sull’opinione pubblica.
Il secondo nesso invece viene rigettato e screditato aprioristicamente, delegittimando la fonte prima ancora di averne verificata l’eventuale infondatezza.

Cosa comporta dunque la rimozione di un nesso causale e l’adozione “tout court” di un altro?

Il caso della discriminazione di genere in questo contesto si unisce facilmente ad altri temi contigui come le violenze sulle donne e via dicendo, creando di fatto una pressione dell’opinione pubblica sul legislatore (l’effetto “priming” sulla politica) che in conseguenza di spinte emotive magari legifererà aggiungendo norme in linea di massima già esistenti che, la storia ci insegna, di fatto non cambieranno nulla.

Invece il rigetto del nesso causale “alternativo”, qualora ne fosse stata verificata la fondatezza, azzera una riflessione più che mai necessaria sull’organizzazione e sull’efficacia del “welfare”, tema senz’altro di non secondaria importanza e dove gli spazi di intervento potrebbero essere assai più ampi.

Questo esempio ed il ragionamento ipotetico fatto sono serviti soltanto a mettere in evidenza un possibile modo con cui può concretizzarsi disinformazione e quali distorsioni possa produrre nell’ambiente, anche in presenza di buona fede da parte dei giornalisti/narratori. Basta proiettare questo su aspetti più complessi e delicati per rendersi conto della potenza dello strumento.

 Conclusioni 

Sicuramente non bastano poco più di 3.000 parole per spiegare esaustivamente un aspetto così complesso, tuttavia penso di aver introdotto aspetti importanti su cui riflettere seguendo percorsi alternativi.

In conclusione la disinformazione è sempre esistita e sempre esisterà perché potenzialmente endemica alla soggettività dell’informazione e del racconto in essa contenuto, e due sono i macro fattori su cui si poggia, uno di carattere cognitivo, l’altro di tipo contestuale.

Nei fattori cognitivi troviamo:

  • i meccanismi di funzionamento della memoria che tende ad organizzare fatti e conoscenze in forma narrativa anziché in forma di dati;
  • l’esigenza di semplificare un flusso di informazioni enorme diventato ormai inverificabile anche da parte degli operatori professionali dell’informazione porta a preferire la sintesi, i titoli, piuttosto che l’analisi seguendo quindi stereotipi ed idee comuni molto più semplici da organizzare;
  • l’impossibilità di discernere tra ciò che è vero o verosimile, manipolato o inventato, comporta fenomeni regressivi dove è più semplice seguire il proprio gruppo, credere a ciò che conferma i nostri giudizi, valori e simpatie, radicalizzando le posizioni all’interno delle proprie “cerchie” virtuali;
  • la convinzione diffusa di vivere in un contesto globalizzato dove la situazione sociale ha sviluppato diffidenza e sfiducia nelle fonti informative ufficiali, genera una reazione che porta a farsi affascinare dall’indiscrezione come possibile segno di verità nascoste dagli organi ufficiali.

Nondimeno il contesto offre un sostanzioso nutrimento al fenomeno della disinformazione attraverso:

  • le nuove tecnologie e i nuovi canali di comunicazione come i social media che hanno aumentato a dismisura velocità e capacità di diffusione dell’informazione;
  • il cambiamento di alcuni principi basilari del sistema delle comunicazioni di massa dove l’informazione non si propaga più solo dall’alto in basso ma con sistemi cosiddetti a rete;
  • il sistema di “gate keeper” è stato di fatto superato perché ormai i grandi network non detengono più il monopolio dell’informazione, visto che uno smartphone è sufficiente per documentare un fatto e creare informazione; non essendo più in grado di arginare la notizia di un fatto il loro ruolo si trasforma in “distributori all’ingrosso” di informazione che organizzano in forma e sequenza narrativa;
  • i social media sono diventati sede di sterminate ed incontrollabili piazze virtuali dove ogni “cerchia” discute, costruisce e metabolizza i propri significati sociali, un effetto “box chamber” che diffonde le interpretazioni più che i fatti.

C’è un bel po’ di carne al fuoco per rendersi conto della delicatezza del fenomeno e di come sia pressoché impossibile pensare di arginarlo; tanto vale cercare almeno di essere consapevoli del suo funzionamento e del perché ci si trova, più o meno volontariamente, all’interno di correnti di pensiero che in alcuni casi sono, ed è un eufemismo, “scarsamente razionali”.

 

“ogni particolare narrazione di una violazione dalla norma fonda una tradizione e diventa il nucleo di un genere narrativo su come il mondo è (Amsterdam – Bruner – 2000)

1 Generalmente il clickbait si avvale di titoli accattivanti e sensazionalisti che incitano a cliccare link di carattere falso o truffaldino, facendo leva sull’aspetto emozionale di chi vi accede. Il suo obiettivo è quello di attirare chi apre questi link per incoraggiarli a condividerne il contenuto sui social network, aumentandone quindi in maniera esponenziale i proventi pubblicitari (f.te Wikipedia)
2 Gli antecedenti sono definibili in sintesi come esperienze e conoscenze precedenti, presenti nella memoria, a cui si fa ricorso per interpretare e decodificare fatti e comportamenti che ci appaiono incongruenti e non chiaramente esplicitati; il concetto è ampiamente trattato nel testo Psicologia Culturale – A. Smorti – 2003 – Carocci ed.
3 Gli script sono definibili in sintesi come generi narrativi in cui siano stato interiorizzati schemi sequenziali di fatto-problema-soluzione che possono essere applicati a narrazioni di cui non si conoscono ancora le conseguenze finali; il concetto è ampiamente trattato nel testo Psicologia Culturale – A. Smorti – 2003 – Carocci ed.
4 Per criteri produttivi vds M. Wolf – Teorie delle comunicazioni di massa – Bompiani
le immagini sono state tratte da:

Il bluff della ripresa e la disinformazione

Facile dire fake news. Guida alla disinformazione

http://mondos-porco.blogspot.it/2015/04/i-mass-media-armi-di-disinformazione-di.html